a Peppino Impastato e Santo De Luca

martedì 29 aprile 2008

FONDO CHE SCEGLI, COSTO CHE TROVI*

Si torna a parlare di introdurre per legge una forma di controllo dei prezzi dei prodotti previdenziali. Le scorciatoie non servono, lo ha dimostrato il Regno Unito. Invece la normativa dovrebbe garantire condizioni di partenza meno diseguali fra le diverse forme previdenziali, per avere un minimo di concorrenza nelle grandi e medie imprese. Non solo si ridurrebbero gli attuali differenziali, forse si riuscirebbe anche a raggiungere a costi contenuti quel gran numero di italiani che vuole ragionare delle proprie scelte di investimento con un consulente di fiducia.
Dopo la pubblicazione da parte della Covip degli indicatori sintetici dei costi (Isc) delle diverse forme pensionistiche, sembra aver ritrovato qualche spazio la mai sopita richiesta di introdurre per legge una qualche forma di controllo dei prezzi dei prodotti previdenziali.Per discutere della questione, occorre comprenderne correttamente i termini economici.
TRIPARTIZIONE DEL MERCATO
Un primo e fondamentale fattore di cui tenere conto è rappresentato dalla sostanziale tripartizione del mercato che si è affermata nel corso del 2007, in parte per eredità storica e in parte come conseguenza dell’accorto dosaggio di prerogative e privilegi alle diverse forme previdenziali attuata, consapevolmente, dalla riforma (d.lgs 252/2005).Ai fondi negoziali è stata di fatto assegnata la platea meno costosa da raggiungere, rappresentata principalmente dalle grandi imprese, per lo più del Centro-Nord. Ai fondi aperti ad adesione collettiva sono stati sostanzialmente riservati i dipendenti delle piccole e piccolissime imprese, molto disperse sul territorio e molto più difficili da raggiungere. Alle forme individuali (siano esse fondi aperti o polizze) resta la platea più costosa da raggiungere: per lo più lavoratori autonomi e professionisti.Come era prevedibile, i fondi negoziali hanno fatto molto poco per cercare adesioni nelle piccole imprese, perché per fare questo avrebbero dovuto dotarsi di una vera e propria rete di consulenti previdenziali e per pagarli avrebbero dovuto chiedere commissioni più alte agli attuali iscritti. Per altro verso, generalmente i fondi aperti non hanno nemmeno tentato di stipulare accordi nelle grandi imprese - condizione indispensabile questa per qualificarsi come “forma collettiva” e fruire del contributo datoriale - perché non avrebbero trovato terreno fertile fra i datori di lavoro, comprensibilmente più preoccupati di tenere buone relazioni con i sindacati che di offrire una pluralità di opzioni alternative ai dipendenti.Quanto agli strumenti individuali, si rivolgono a quella ampia massa di persone che non vive in realtà organizzate o in esse non si riconosce, anche perché tali strumenti non hanno generalmente titolo a ricevere il contributo del datore di lavoro. In questi casi, le persone debbono essere contattate a una a una e richiedono consulenze personalizzate e dunque costose. In cambio, è lecito ritenere che ottengano più informazioni e compiano scelte un po’ più accorte e consapevoli. Ad esempio, risulta che tipicamente optino per un’allocazione degli attivi meno sbilanciata verso l’obbligazionario di quanto non accada nei fondi negoziali multi comparto, in cui solo l’1,4 per cento degli iscritti ha scelto una linea azionaria. Il che, nel medio termine, generalmente più che compensa gli eventuali differenziali di costo.
QUANTO COSTA LA RETE
Occorre anche essere consapevoli che i costi delle reti distributive e della loro corretta gestione e formazione sono aumentati negli ultimi anni per effetto di direttive europee e leggi nazionali volte a meglio tutelare i risparmiatori.(1) In particolare, tutti gli operatori, con la forse comprensibile eccezione dei fondi negoziali, per vendere prodotti finanziari, assicurativi o previdenziali, devono servirsi di veri e propri professionisti (promotori, agenti, private bankers e così via), iscritti ad apposti albi, adeguatamente selezionati e formati, assoggettati a precise responsabilità in ordine all’adeguatezza dei prodotti, all’informativa precontrattuale, ai conflitti di interesse eccetera. Il tempo di questi professionisti è inevitabilmente costoso. E occorrono a volte non ore, ma giornate intere per spiegare alle persone vantaggi e svantaggi di quei prodotti finanziari del tutto speciali ed estremamente complessi che per lo Stato meritano la qualifica di prodotti previdenziali e le conseguenti agevolazioni fiscali.Non a caso, come spiega la stessa Covip, quando si stipulano accordi per adesioni collettive (per i fondi aperti) o convenzioni con collettività di lavoratori autonomi (per i Pip) si possono avere, e generalmente si hanno, “indicatori sintetici di costo più bassi di quelli pubblicati”.Un altro fattore di cui tenere conto per spiegare le differenze di costo è rappresentato dalle garanzie finanziarie, nel continuo o a scadenza, o demografiche offerte da alcune tipologie di prodotti. La garanzia più importante, offerta dalle polizze previdenziali, consiste nel fatto che il coefficiente di trasformazione del montante in rendita è indicato nel contratto e può variare soltanto sulla base di condizioni oggettive definite ex-ante. Sempre a garanzia dell’aderente, le compagnie di assicurazione hanno l’obbligo di costituire una riserva di capitale, o margine di solvibilità, commisurato agli attivi in gestione.Tenendo conto di questo insieme di fattori, è facile verificare che con gli attuali livelli delle commissioni gli operatori finanziari (banche, assicurazioni, Sgr) conseguono margini di guadagno assolutamente ragionevoli, nell’ordine di una frazione assai contenuta degli Isc pubblicati dalla Covip.La conclusione principale è che se la normativa fosse tale da creare un campo di gioco meno diseguale fra le diverse forme previdenziali si introdurrebbe un minimo di concorrenza nelle grandi e medie imprese e si ridurrebbero notevolmente gli attuali differenziali di costo. Si attenuerebbe, anche se non verrebbe meno, il problema di come raggiungere a costi contenuti quel gran numero di italiani che non lavora nelle grandi realtà organizzate o non si riconosce nelle rappresentanze tradizionali e, soprattutto, vuole ragionare delle proprie scelte di investimento con un consulente di fiducia.È giusto chiedersi come si possa migliorare la situazione attuale, ad esempio puntando su una maggiore concorrenza, sull’educazione finanziaria, sulle vendite via Internet o, forse, sulla consulenza indipendente. Ma se si scegliesse la scorciatoia del controllo dei prezzi succederebbe la stessa cosa che accadde alcuni anni fa nel Regno Unito. Gli intermediari finanziari smisero di vendere, perché non erano più in grado di remunerare adeguatamente le reti, e un gran numero di persone rimase senza copertura previdenziale integrativa.
(1) Secondo la FSA (A Review of Retail Distribution, June 2007), nel Regno Unito i costi della regolazione hanno contribuito ad escludere una ampia fascia della popolazione, con redditi annui inferiori a circa 50.000 sterline, dall’accesso alla consulenza finanziaria. Tanto che ci si chiede se non sia opportuno prevedere, almeno per alcune tipologie di prodotti o intermediari, regole meno stringenti rispetto, ad esempio, a quelle previste dalla Mifid (il cosiddetto Primary Advice, in luogo dell’adeguatezza).

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