a Peppino Impastato e Santo De Luca

mercoledì 5 maggio 2010

Fa stalking al capo che l’ha licenziato Il giudice gli ordina di non avvicinarsi

Il dipendente si era opposto a una riorganizzazione ed era stato messo in cassa integrazione

MILANO — Perseguitato da chi aveva messo in cassa integrazione. Minacciato, lui e la sua famiglia, da uno dei lavoratori coinvolti dalla cessione di un ramo d’azienda nel quadro di una pesante ristrutturazione societaria. E ora, per proteggere il dirigente e sua moglie da questo «stalking», il Tribunale di Milano ordina al lavoratore licenziato di non avvicinarsi più all’ufficio del manager, di stare lontano da casa sua, di andar via dai luoghi frequentati nel tempo libero dai suoi familiari: per la prima volta in Italia, una ordinanza di «divieto di avvicinamento» viene così adottata da un giudice per un caso di «stalking» non tra persone in passato legate sentimentalmente, o nel contesto privato di attriti personali, o al limite (come già avvenuto) alla conclusione del rapporto tra badante e assistita o nelle liti di condominio tra vicini di casa, ma in azienda. Sul posto di lavoro. Tra dirigente e lavoratore. Nel marasma di una ristrutturazione aziendale.
L’indagato in questione, infatti, è un informatore scientifico che, quando lavorava per la Pharmacia Italia spa (poi incorporata in Pfizer spa), si era opposto, sia in sede sindacale sia con un contenzioso giudiziario che l’aveva visto soccombere, alla cessione del ramo d’azienda alla Marcecspharma Service srl, la quale nel 2008 aveva poi messo in cassa integrazione straordinaria 450 lavoratori tra cui lui.
È qui che si accende la miccia della sua rabbia verso i vertici dell’azienda e in particolare verso il ragioniere che, in quanto rappresentante della società nelle cause in tribunale e nelle procedure davanti alla Direzione Provinciali del Lavoro, egli identifica come il maggior responsabile delle scelte della società e, dunque, delle proprie sventure.
Nell’aprile 2008 comincia a bombardare l’azienda con telefonate e con mail ai colleghi, tipo quella nella quale l’8 aprile profetizza che per il dirigente «arriverà il momento di pentirsi amaramente di ciò che ha fatto». L’azienda, anche in considerazione delle non buone condizioni di salute dell’uomo, gli offre una transazione che contempla alcuni benefici economici e un possibile reintegro nel posto di lavoro, ma l’informatore scientifico viola la clausola di riservatezza e così l’azienda revoca l’offerta e gli muove una formale contestazione disciplinare.
L’uomo reagisce chiedendo di parlare con il ragioniere e minacciando, altrimenti, in alcuni momenti di ammazzarlo e in altri invece di uccidersi (e in effetti scavalca un parapetto). L’azienda si spaventa e ingaggia guardie giurate all’ingresso. Ma il lavoratore non si ferma. Telefona in società e sibila che «il ragioniere è stato fortunato a non essere in ufficio l’altro giorno». Licenziato, torna a bersagliare il centralino con la richiesta di incontrare il ragioniere, altrimenti «ci sarebbe scappato il morto»: minaccia che spaventa così tanto il dirigente da indurlo non soltanto a sporgere denuncia ma anche a barricarsi in casa per tutto il fine settimana. Ma il lavoratore comincia a telefonare anche a casa del dirigente, dove la moglie, esasperata e terrorizzata, a un certo punto si vede costretta a isolarsi e a staccare il telefono.
È a questo punto dell’escalation che il giudice Nicola Clivio, su richiesta del pm Isidoro Palma e impulso dell’avvocato di parte civile del manager, Daniela Insalaco, ritiene di dover arginare «le condotte aggressive» dell’indagato, che hanno «preso spunto da una vicenda civilistica» ma che ora «ne rappresentano uno sviluppo del tutto autonomo che trascende lo scopo di tutela dei diritti nascenti dal rapporto di lavoro per assumere una finalità persecutoria nei confronti del ragioniere e della sua famiglia». E ordina al licenziato di non avvicinarsi all’ufficio e alla casa del manager e della sua famiglia, nonché ai loro luoghi del tempo libero. Se lo farà, scatterà «la custodia in carcere».

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