POCHI GIOVANI E POCO VALORIZZATI
Il confronto tra Italia e Francia può essere illuminante in questo senso. La longevità nei due paesi è molto simile, del tutto comparabili sono i livelli dell’aspettativa media di vita, e analogo è anche l’ammontare della popolazione. La differenza sta tutta nella parte bassa della piramide delle età. Negli ultimi venticinque anni la fecondità francese si è mantenuta su valori poco inferiori ai due figli per donna, soglia che rappresenta il livello di equilibrio nel rapporto generazionale. Nello stesso periodo l’Italia è diventata uno dei paesi con più cronica denatalità al mondo. La conseguenza è che ora rispetto alla Francia contiamo oltre quattro milioni e mezzo di under 25 in meno. Siamo inoltre in Europa lo stato con peso più basso di tale fascia d’età sul totale della popolazione: gli unici scesi sotto quota 25%.
Figura 1 - Percentuale popolazione under 25

Quello del declino demografico dei giovani è un fenomeno del tutto inedito e del quale il nostro paese è una della punte più avanzate. Un processo che, per analogia con quello della denatalità e per contrapposizione a quello del ringiovanimento, potremmo chiamare “degiovanimento”(1). Il rischio è che al degiovanimento demografico corrisponda anche un degiovanimento sociale, vale a dire una perdita generalizzata di peso e di importanza delle nuove generazioni.
RAPPORTI GENERAZIONALI SQUILIBRATI
La teoria economica dice che se un bene diventa più raro tende a diventare di conseguenza anche più prezioso, aumenta di valore e viene più ricercato. Stranamente, però, ciò non accade in Italia per il bene “giovani”. I giovani italiani, rispetto ai coetanei europei, contano meno non solo dal punto di vista demografico, ma anche da quello sociale, economico e politico (2). Siamo infatti il paese che nel complesso risulta più squilibrato nei rapporti tra generazioni. C’è, in primis, lo squilibrio nei rapporti quantitativi, che corrisponde anche a un minor peso elettorale per le nuove generazioni. Ma esiste anche un deficit di presenza dei giovani nella classe dirigente. La maggiore gerontocrazia del mondo politico di cui soffre il nostro Paese è inoltre accentuata da barriere anagrafiche di ingresso nel Parlamento che difficilmente trovano paragoni negli altri paesi occidentali (3). L’occupazione under 25 è poi tra le più basse (la Spagna negli ultimi dieci anni ci ha superati) e la disoccupazione tra le più elevate. Per chi poi trova lavoro, come dimostrano i dati Istat e della Banca d’Italia, i salari risultano particolarmente bassi ed il divario con quelli dei cinquantenni si è ampliato. Sbilanciata a favore delle generazioni più vecchie è anche la spesa sociale. In tutti gli altri paesi dell’area euro, le pensioni incidono per meno della metà della spesa per protezione sociale, noi invece superiamo il 60%. Se si scorporano le pensioni spendiamo un terzo in meno per tutte le altre voci rispetto alla media europea.
Figura 2 – Spesa sociale (% sul Pil) escluse le pensioni

La questione pensionistica è un ulteriore elemento di iniquità nel rapporto tra le generazioni: come ben noto, le riforme previdenziali hanno nel complesso addossato la maggior parte dei costi dell’invecchiamento sulle nuove generazioni (4). E, dulcis in fundo, la più odiosa delle iniquità nei rapporti intergenerazionali: il debito pubblico. Nel 2007 l’indebitamento italiano è stato l’unico dell’area euro a trovarsi sopra il Pil, mentre in tutti gli altri grandi paesi europei non oltrepassa il 65%. Un debito che, come sottolineano Boeri e Galasso (5), è servito alla generazione dei padri per salvaguardare il proprio benessere e che ora brucia risorse che potrebbero essere destinate a rendere meno squilibrata la spesa per protezione sociale verso le nuove generazioni.
Il nuovo governo Berlusconi si è dato il compito di far rialzare l’Italia. Difficilmente però il Paese riuscirà a rimettersi in piedi e a correre come gli altri se prima non ridurrà il macigno del debito pubblico che si porta sulle spalle.
USCIRE DALLA SPIRALE
La spirale del “degiovanimento” penalizza lo sviluppo e la crescita. Per mantenere competitivo il Paese, alla diminuzione quantitativa delle nuove generazioni si deve rispondere con un aumento qualitativo. La strada è semplice, si deve invertire completamente la rotta. Ovvero, fare quello che sinora non si è fatto: investire in formazione, in opportunità occupazionali e in protezione sociale. Ma poi, soprattutto, premiare i migliori. L’Italia dei prossimi decenni sarà "meno peggio" di quella presente solo se avremo figli mediamente più bravi dei padri e consentiremo ai più capaci di arrivare ai posti più importanti e prestigiosi. In caso contrario, al di là di qualsiasi barriera protezionistica verso l’esterno, il declino è assicurato.
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